Tem que viver a vida
um dia após o outro,
no final tudo dará certo.

(Lédice Correia Santos)

Sette anni dopo, al Pelourinho

Ícaro non vola, e forse non volerà mai. Dopo un paio d’anni di galera, oggi ha ripreso la sua vita di “malandragem” al Pelourinho, abbordando turisti sprovveduti con il suo solito fare misurato e circospetto, come un animale della foresta in cerca di preda, consapevole di essere lui stesso una preda.

Non l’avevo più rivisto dal tempo dei fatti. Avevo chiesto in giro notizie di lui, ogni volta che tornavo a Bahía, portando con me una copia del libro, la copia destinata a lui, il protagonista. Non mi era più capitato di incontrarlo, in nessuno dei viaggi successivi.

È stata la prima persona che ho incontrato risalendo Rua Portas do Carmo, appena sceso in strada diretto al Terreiro de Jesus, quella domenica pomeriggio dello scorso novembre, venendo da una settimana trascorsa a Recife. Mi aveva fermato con i soliti pretesti, forse mi aveva anche parlato in italiano, ma probabilmente non mi aveva riconosciuto.

Aveva i crespi capelli corti pesantemente ossigenati, un look del tutto inedito. Per il resto i soliti bermuda e maglietta, ma meno puliti rispetto al primo incontro, sette anni addietro: corporatura più robusta, non più un adolescente gracile e malnutrito, ormai un giovane uomo di 26 anni. Lo riconobbi subito, gli mancavano del tutto i due incisivi superiori, al mio ricordo tranciati a metà in una rissa: «Você é Ícaro, né?...». Rimase sopreso dal fatto che conoscessi il suo nome. Mi guardò per un momento senza parole. «Cê lembra?...». «Lembro...» mormorò dopo un attimo di incertezza, «o italiano, o meu amigo...». E via a precisare reciprocamente i dettagli del primo incontro e del rocambolesco rincorrersi di fatti che ne era seguito: il furto, la denuncia alla polizia, il contatto con i presunti ladri, il millantato recupero dell’oggetto, l’estorsione...



Fabio Chiocchetti, Direttore dell’Istitut Cultural Ladin “Majon di Fascegn” a Vich/Vigo di Fassa.
La storia di Ícaro, e del mio primo incontro con lui e con il Brasile, è narrata nel volumetto uscito nel gennaio del 2004 per i tipi di Nicolodi editore in Rovereto con il titolo “Il volo di Ícaro – Storie di ordinaria marginalità a Salvador da Bahía”. Questo breve racconto, scritto al ritorno dal mio ultimo viaggio in quella magica città, ne costituisce l’inatteso epilogo, suggello di un’avventura umana e letteraria che mi ha straordinariamente arricchito, aprendomi la via verso nuove visioni del mondo. Dedico queste pagine con grande piacere a Dieter Kattenbusch, al quale mi lega un’amicizia che risale ai primissimi anni ’80, quando io avevo appena iniziato il mio lavoro all’Istitut Cultural Ladin e lui si affacciava alle valli ladine, insieme con il prof. Hans Goebl e con il collega Thomas Stehl, per svolgere una “Tiefbohrung” preordinata alle inchieste dell’ALD-I (“Atlant Linguistich dl Ladin Dolomitich y di dialec vijins”), cui il Festeggiato in seguito avrebbe contribuito in modo continuativo e rilevante. Questa dedica va dunque al di là dei rispettivi interessi (professionali e non) per il ladino e per le minoranze linguistiche, e si proietta oltre i confini della nostra vecchia e cara Europa sull’onda di una comune fascinazione per l’America Latina e per la sua gente, che ci ha portati entrambi, per vie e destinazioni diverse, a fare l’esperienza indimenticabile di “un’altra vacanza” (cf. Dieter Kattenbusch, “CALI – Tagebuch eines anderen Urlaubs”, Berlin 1997).

Ora ricordava tutto benissimo. Naturalmente spergiurò che i “ladri” avevano già venduto la macchina fotografica, e lui era tornato per restituirmi i soldi, ma io non c’ero più, e che poi li aveva spesi per comprarsi da mangiare... La stessa versione che diede alla polizia quando fu beccato. Stranamente non disse nulla a questo proposito. Temevo serbasse rancore, ma evidentemente gli era andata bene: dopotutto non l’avevo denunciato e lui la coscienza pulita forse non ce l’aveva proprio. Credo che i due anni di prigione li avesse avuti per ben altre bricconate...

Gli dissi che avevo raccontato tutta la sua storia in un libro, che lui, Ícaro, era diventato “famoso” in Italia. Sapeva del libro, ne aveva avuto notizia dalla Delegata della Polizia con la quale aveva avuto contatti per qualche tempo, ma poi Zélia si era trasferita ed evidentemente non aveva fatto in tempo a fargli avere la copia che le avevo mandato per lui.

Si mostrava fiero di tanto onore, felice di tanta considerazione. Ricominciò a chiamarmi “amigo” e a raccontarmi tutte le sue storie di bravo ragazzo, povero ma pieno di voglia di fare. Adesso voleva comprare una cassetta termica, non ricordo il nome in portoghese, quei rudimentali contenitori in polistirolo che usano i venditori ambulanti di acqua minerale. Non ce lo vedevo proprio Ícaro andare in giro sotto il sole a vendere le bottigliette “um real, um real!”...

Insomma aveva bisogno di 30 reais. Finì che gliene diedi 15, credo, e protestò pure perché non gli avevo dato l’intera somma. Ci demmo appuntamento per il giorno dopo, all’ingresso dell’hotel Pelourinho (si era subito informato se ero alloggiato nello “stesso” albergo...), gli avrei dato la copia del libro, con tanto di “dedicatória”...

Così avvenne. Sembrava commosso nel leggere il suo nome sulla copertina “Il volo di Ícaro”, O vôo do Ícaro, tradussi. Collegò subito il senso del titolo al contenuto del racconto mitologico che egli stesso mi aveva citato quando mi incontrò la prima volta. Era sveglio, il ragazzo, ma confessò che il libro non avrebbe potuto leggerlo: le sue conoscenze di italiano erano più limitate di quanto non volesse far credere, o forse non aveva dimestichezza con la lettura. Lo avrebbe portato a sua madre, o a sua nonna, e intanto mi chiese i soldi per l’onibus... Cavolo, non perde tempo questo qui. Ovviamente non aveva comprato la cassa termica, i soldi che gli avevo dato non erano abbastanza, e quindi se li era mangiati in altro modo. Nulla di nuovo. Solo che da quel giorno Ícaro si fece sempre più insistente. Mi cercava in albergo a tutte le ore, importunava il personale della reception. La direttrice mi fece capire che la sua presenza non era gradita. Mi fece chiamare una mattina mentre facevo colazione. Scesi, mi sedetti con lui sui gradini dell’atrio, e gli feci il discorsetto: «Senti Ícaro, ci siamo incontrati di nuovo, ti ho consegnato il libro, è arrivato a destinazione: l’avevo scritto per te, sperando che qualcosa potesse cambiare. La storia è finita, il finale è nelle tue mani, ora vai per la tua strada. Non puoi continuare a vivere chiedendo denaro agli altri. Io non te ne darò più. È finita».

«Ma io sono tuo amico».

«Ícaro, tu sei amico del mio denaro, l’amicizia è un’altra cosa...»

Si adirò, come non lo avevo mai visto fare.

«Eu vou botar o seu livro no fogo!...»

Va’ Ícaro, va’ a buttare il mio libro nel fuoco, così come stai bruciando la tua vita e la tua gioventù. Non che non mi aspettassi questa reazione. Ormai, dopo i miei ripetuti viaggi in Brasile ero talmente disincantato che una simile conclusione della vicenda era largamente nelle previsioni. Non mi illudevo da tempo sulla possibilità di riscatto di simili personaggi, ne avevo visti tanti, e tanti mi avevano messo in guardia dai facili sentimentalismi. “È un problema sociale”, aveva detto la poliziotta. Già, figuriamoci se un raccontino, per quanto ben scritto e ben stampato, può risolvere un problema sociale, o anche solo cambiare le sorti di un ragazzo cresciuto in una favela di Bahía.

Ciò nonostante, mi prese una strana malinconia nel vederlo andar via così. Davvero una storia era finita, la mia storia, quella iniziata con quel primo viaggio, con quel primo incontro, un innamoramento per una terra e per un popolo carico di fascino e di magia: la musica, la bellezza, la sensualità, la voglia di vivere, ma anche la violenza, la lotta per sopravvivere, il cinismo... Una bella storia, dopo tutto.

Lo incrociai più volte al Pelourinho, mi passava accanto con faccia truce, oppure mi lanciava invettive di lontano. Lédice, cui ovviamente avevo raccontato l’accaduto, mi disse semplicemente di stare in guardia, senza nemmeno farmi pesare la cosa con commenti del tipo “te l’avevo detto io!”... Ci furono momenti in cui temetti davvero che potesse o volesse vendicarsi e tirarmi qualche brutto tiro. Ricordo però che una volta, forse meno incline al rancore, mentre passavo mi salutò dicendo sommessamente: «Você é meu amigo, um turista bom...».

Ma ormai avevo deciso di non dargli più confidenza. E poi, durante quel soggiorno, tutto sembrava congiurare e indurre al disincanto. Elena, la “garota de programa” di pelle scura, non bellissima ma allegra e simpatica, quella che mi aveva abbordato già il primo anno parlando in un italiano diventato abbastanza fluente a forza di “fidanzati” italiani, si era comportata malissimo nei miei confronti: al mio ennesimo cortese rifiuto, incattivita come non l’avevo vista mai, non si era accontentata della consumazione ma mi aveva praticamente estorto i soli 20 reais che in quel momento avevo in tasca con minacce di una perfidia assoluta. Il giorno di Yansã, Santa Barbara, festa alla quale non avrei rinunciato per nulla al mondo (messa, processione e concerto in Largo do Pelourinho, con tutta la gente vestita di bianco e rosso, me compreso), i soliti ignoti approfittando della calca e della mia dabbenaggine mi avevano fregato il portafoglio, cosicché mi toccò tornare ancora una volta alla Deltur a far denuncia: la sede della polizia turistica non aveva esercitato su di me lo stesso fascino della prima volta, e non successe niente di importante. Del resto la presenza al Pelourinho della Polizia mi era sembrata molto ridotta rispetto al passato, mentre il degrado era cresciuto. Non c’era più quella folla variopinta di personaggi stravaganti, ma molte facce accigliate e torve. Non c’era più il ragazzino ricciuluto e sorridente che si esibiva in giochi con le sue noci di cocco, le vendedoras de rua mi sembravano meno allegre e disposte al dialogo. La “Cantina da Lua” era diventato un postaccio, caipirinha imbevibile e cibo da dimenticare, meglio i succhi da un real nel lanchonete sull’altro lato del Terreiro. Il Candomblé cui avevo assistito, roba da turisti, e non era nemmeno quello in onore di Yansã, come mi avevano assicurato. Una baiana, di quelle in costume che presidiano i negozi per attirare clienti, mi apostrofò duramente perché avevo osato fare una foto senza pagare.

E a proposito di negozi: dove erano finite le gioiellerie e le boutiques? Molte erano chiuse, o rimpiazzate da mercerie dozzinali. Anche le bottegucce di artigianato e oggetti d’arte sembravano più spoglie e sfornite. Mi accontentai di frequentare qualche volta la bottega di strumenti musicali di Mestre Bimba, costruttore di tamburi e maestro di Capoeira, il quale mi raccontò che il turismo al Pelourinho era sensibilmente calato negli ultimi anni, mentre la delinquenza aumentava di giorno in giorno. Non sapeva dirmi se la latitanza della Polizia fosse la causa o la conseguenza di questa mutata situazione. Il problema della violenza era ogni giorno l’argomento di prima pagina sui principali quotidiani del paese: da lì seppi che Salvador da Bahía aveva raggiunto il terzo posto nella graduatoria delle città più violente del Brasile, oltre 800 omicidi all’anno: nel 2002 era al quindicesimo posto.

E a proposito di musica, anche questa mi sembrò molto meno suggestiva che in passato: i gruppi di batucada poveri e approssimativi, ben lontani dai fasti di Olodum e Ilê Aiyê, le feste serali imbruttite e caotiche, specie la Terça da Bença, tanto alcool e troppo volume: nuove tendenze!... Per fortuna scovai un gruppo di Choro tradizionale che si esibiva settimanalmente al Teatro “Vila Velha”, dove tra l’altro non c’erano turisti.

In più occasioni percepii un senso di malessere e di insicurezza che non avevo provato nei precedenti viaggi. Naturalmente non mi successe nulla di male (a parte il furto con destrezza), ma nemmeno incontri con persone interessanti. Seppi che Careca aveva perduto il taxi e si arrangiava alla bell’e meglio. Non mi riuscì di incontrarlo, e non rividi perciò nemmeno la mia Mãe de Santos. Non rividi Ilma, né Jozi, il mio maestro di violão, e nemmeno il genovese Evenzio, cognato di Lédice, sempre piazzato di solito al caffè del francese. Nemmeno il caffè sembrava lo stesso. Persino in hotel, dove da anni ero un cliente abituale, al momento della partenza mi trattarono senza alcun riguardo...

Avevo la sensazione che non sarei più tornato, o almeno non subito, non con la stessa urgenza che avevo percepito altre volte. O quantomeno non là, nello stesso posto, non nella “stessa storia”. Quella storia era finita. L’innamoramento era finito. Il Pelourinho era cambiato, o forse semplicemente ero cambiato io: la città era la stessa, era proprio così, solo che io finalmente la vedevo come era veramente, senza più la lente deformante dell’incantamento. La realtà si era presa la sua rivincita sulla letteratura, e si faceva beffe di quella sua pretesa insana: l’illusione di poter non solo “cogliere” la realtà, ma di poterla persino cambiare.

Anzi no. O meglio, questo era davvero il precipitato delle mie sensazioni alla fine di quel viaggio, ma quella magica città, San Salvador da Bahía de todos os Santos, mi avrebbe riservato un’ultima sorpresa, un ultimo prodigio. È vero, avevo perduto di vista molti dei personaggi equivoci che popolavano il sottobosco delle serate al Pelourinho, ai quali a parere di Lédice davo anche troppa confidenza, e verso i quali mi spingeva uno strano interesse “antropologico”, non nel senso accademico del termine, ma nel senso di De André: “se non sono gigli / sono sempre figli / vittime di questo mondo”. Ragazze di programma, musicisti di strada, danzatori di Capoeira, viados trança-cabelos, artisti dalle dubbie qualità che fino ad allora costituivano le componenti abituali di un panorama che mi era divenuto familiare, erano quasi spariti dalla città, insieme ai “turisti fai da te”. O forse si erano semplicemente trasferiti in altre zone della città, più “vocate” alle loro varie attività. Anche meninos de rua e i venditori di collanine sembravano diminuiti nel numero, e accresciuti in petulanza.

Non avevo più rivisto Sara, la giovane ragazza di programma con cui avevo trascorso l’ultima serata prima della partenza nel viaggio precedente. L’avevo notata da un po’, silenziosa e discreta, poco appariscente rispetto alle compagne più chiassose. Quella sera era sola, me l’ero trovata a fianco durante un concerto in piazza Quincas Berro d’Agua, mi aveva salutato come si fa con un conoscente abituale, le avevo offerto da bere e lei mi aveva spiegato con semplicità e chiarezza la sua visione della vita: una figlia piccola a casa, nessun marito, 24 anni e la consapevolezza di una donna matura, cui non erano date molte possibilità. Mi aveva portato in un botequím dalle parti di Praça da Sé a bere Whisky e Cola, parlandomi di ogni cosa fino a tardi, compagnia piacevolissima, finché mi riaccompagnò all’albergo, stringendomi al braccio. Là, senza nulla chiedere, aveva atteso la mia decisione. Le allungai 50 reais per il taxi augurandole buona fortuna, e ci salutammo affettuosamente, da buoni amici. Confesso che in seguito ripensai a quell’incontro con un po’ di rimpianto...

Sparita dalla circolazione anche Paula, che in realtà era un viado. Faceva parte della compagnia che fino all’anno precedente frequentava la piazza specie in occasione dei concerti. Ciarliera, elegante ma non sfacciata, viso angelico e fisico perfetto, modi gentili, ma non affettati né volgari, come invece accade spesso di vedere in simili personaggi. Mi aveva preso in simpatia e quella sera mi stava raccontando la storia penosa di un suo presunto aborto. Quando le dissi che la cosa era impossibile per questioni anatomiche si era imbronciata in modo deliziosamente infantile: «Não seja triste não, você é uma criatura maravilhosa!...», le avevo detto, e lei si era subito rinfrancata ed aveva ripreso a raccontarmi allegramente le storie più stravaganti. In realtà non se la passava molto bene. Un giorno l’avevo incontrata disperata (si fa per dire) con una scarpa in mano: le si era rotto un tacco, e non poteva mica andare al lavoro scalza! L’avevo accompagnata ad un taxi (solo 10 reais) per poter tornare a casa, giù al Porto de Barra, per cambiare le scarpe. Anche lei mi si era affezionata. Elena mi disse che successivamente aveva ripreso a tirare crack, era stata male e aveva lasciato la città. Povera “Princesa”...

Avevo appena intravisto William, il menino da rua incontrato alcuni anni prima, a causa del quale (non mi vergogno a dirlo) avevo pianto. Ora era cresciuto, la malformazione al ginocchio era divenuta più appariscente, lo sguardo incupito. Un altro Ícaro. Solo qualche anno prima era uno strano ragazzino sorridente, di otto o nove anni, riccioli biondi: sangue di gringo nelle vene! concepito chissà in qual modo... Si aggirava scalzo e lacero per il Pelourinho come un animale braccato chiedendo con insistenza i soldi per mangiare. Mi aveva proprio seccato, quella volta, mentre stavo cercando di telefonare a Lédice da un orelhão in Terreiro de Jesus, e si sa come funzionano talvolta i telefoni in Brasile... Spazientito per conto mio, l’avevo mandato via in malo modo. Lui si era seduto sui gradini del Museo da Facultade e piangeva dirottamente: «Tou com fome! Ho fame! Nessuno mi aiuta...». Mi sentivo una merda per come mi ero comportato: mi sedetti accanto a lui e gli avevo parlato. Poi l’avevo accompagnato ad un lanchonete di Rua Portas do Carmo per farlo mangiare. Lui mi guardava con occhi riconoscenti e mi ringraziava ad ogni boccone. Quella volta doveva aver davvero fame, ma seppi in seguito che la maggior parte del denaro che “guadagnava” lo spendeva in altro modo. Ripresi la mia strada, ma al ricordo di quella scena e del mio comportamento mi venne un groppo in gola che mi fece scoppiare in lacrime, lì per strada... Ne parlai a Lédice e a padre Alfredo, con cui avevo giusto appuntamento giù a Barra, pensavo addirittura ad un’adozione a distanza. Padre Alfredo, che da anni operava con marginali e i professionais do sexo, mi spiegò quali e quante situazioni diverse potevano celarsi dietro a quell’episodio. Prima bisognava verificare esattamente lo stato delle cose, quindi ci eravamo accordati: io avrei dovuto “convocare” il ragazzino in un luogo certo, dove si sarebbe recata in incognito una sua assistente. Il luogo prescelto era il caffè di George, il francese, all’angolo del Cruzeiro de San Francisco, dove passavo spesso qualche oretta in compagnia di Evenzio, il cognato italiano di Lédice.

Nei giorni seguenti lo avevo incontrato, William, mi si era avvicinato zoppicando: aveva una brutta ferita ad un piede, ancora sanguinante, pareva infetta. Io ed Evenzio gli facemmo una ramanzina coi fiocchi, che non si andava in giro scalzi per la città, che doveva portare i sandaletti. Lo mandammo di filato al Ponto da Saúde che stava proprio lì dietro a farsi medicare (per essere più sicuri lo facemmo accompagnare da un tipo del posto), dicendo che avremmo comperato per lui i sandália. Il francese, da trent’anni sposato in città con una baiana, si mostrò scettico: entro sera il ragazzino avrebbe rivenduto i sandali per comprarsi tutt’altra roba. Ciò nonostante acquistammo un paio di infradito a buon mercato e quando William fu di ritorno con il piede bell’e medicato, sfoggiando una camiseta di bucato, glieli facemmo indossare, dandogli appuntamento per il giorno dopo alla stessa ora, nello stesso luogo. Inutile dire che all’appuntamento il ragazzino non si fece vedere: aveva mangiato la foglia, e all’assistente sociale non rimase che tornarsene al suo lavoro. Dopo qualche giorno lo incontrai di nuovo, lacero e scalzo: il francese aveva azzeccato le previsioni. Padre Alfredo tornò a spiegarmi che non era facile recuperare questi ragazzini, spesso erano loro che non avevano nessuna intenzione di farsi aiutare, bisognava avere pazienza.

Una sera stavo cenando in Rua das Laranjeiras, ascoltando un magnifico duo di anziani suonatori di Choro, William mi si era ancora avvicinato, guardingo come non mai. Si era seduto un po’ discosto sull’orlo del marciapiede e subito un cameriere era accorso per cacciarlo via. Io lo avevo fermato, dicendo che il ragazzino stava con me, non dava fastidio. William non mi sembrò del tutto tranquillizzato. Poco dopo un agente in borghese, con un grosso distintivo appuntato sulla camicia, si era avvicinato con fare noncurante e poi con mossa fulminea aveva agguantato il ragazzino trascinandolo via, senza degnare della minima attenzione le mie timide proteste, mentre quello si divincolava piangendo disperatamente. Fu ancora il paziente cameriere a spiegarmi la cosa. William era un recidivo, da tempo nel giro della droga e per questo sotto stretta sorveglianza. Gli avrebbero dato una lezioncina, ossia una carica di legnate, l’avrebbero cacciato per un po’ di tempo in una “Casa do Menor”, ossia un riformatorio, tenuto là per qualche settimana, qualche mese, poi lui sarebbe uscito e avrebbe ripreso la vita di sempre. Non c’era speranza. Era una piaga sociale, la delinquenza minorile...

Avevo chiesto ad Elena notizie anche di Mónica, la ragazza delgadinha e riccioluta che avevo conosciuto in uno dei precedenti viaggi. «Quella con cui scopavi due anni fa?» mi disse con una punta di irritazione Elena. «Negli ultimi tempi si faceva di fumo ed altre schifezze, poi credo sia tornata nell’interior. È sparita dalla circolazione da tempo». Non ci avevo scopato, ma eravamo usciti insieme più di una volta, una passeggiata lungo mare, una visitina allo Shopping Barra, un concerto di samba-reggae, una cervejinha, una caipirinha... Mi aveva raccontato un sacco di storie inverosimili, della sua infanzia infelice, dei suoi amori altrettanto infelici, la vecchia nonna ammalata, i genitori poveri nel sertão... Recitava la parte della ragazza perbene e sfortunata, Ícaro in gonnella: «Non sono una ragazza di programma!» aveva protestato, lei lavorava, lavorava come trança-cabelos, ma intanto io non l’avevo mai vista all’opera. Ci stavo bene insieme, ma non credevo una parola a quello che mi raccontava. Con me faceva già la fidanzatina: «Oh, meu amor!...». Poi quando capiva che le sue lusinghe non avevano grande effetto assumeva un’aria contrita e sconsolata: «Ninguém me ama, ninguém me quer, ninguém gosta de mim...». Io le dicevo: «Ma perché non lasci perdere i turisti più vecchi di te, ti cerchi davvero un lavoro e un fidanzato della tua età, e la smetti con questa vita?». Lei continuava a negare, naturalmente... e riprendeva l’elenco delle sue necessità: l’affitto della camera in città, il materasso da cambiare, le medicine per la nonna, la cassetta con il necessario per fare le treccine afro in piazza... E poi: «Non vuoi fare un piccolo regalo alla tua enamorada? Um presente?...». Ogni tanto le allungavo 50 reais.

Quando ci salutammo, il giorno prima della mia partenza, fu molto carina. Mi ringraziò per come l’avevo aiutata, per come l’avevo trattata: ero stato gentile con lei, anche se non... Io le augurai buona fortuna. Le dissi che presto avrebbe trovato un bravo giovane che le avrebbe voluto bene, me lo sentivo. L’indomani avevo il volo a mezzanotte, perciò passai ancora la giornata a fare le ultime compere, poi nel tardo pomeriggio, mentre aspettavo di prendere il taxi per l’aeroporto, mi concedetti un’ultima caipirinha al bar di rua Maciel de Baixo, dove di solito c’era musica dal vivo. La vidi in lontananza scendere dal Cruzeiro a passi incerti sul rozzo selciato per via dei tacchi alti, insieme ad un’amica, entrambe truccatissime e tirate da grandi occasioni: erano palesemente in battuta di caccia. Non si aspettava di incontrarmi, era certa che fossi già partito. Sarebbe passata davanti al tavolino dove ero seduto: appena mi scorse girò goffamente su se stessa e scappò di corsa, seguita dall’amica. Non voleva che la vedessi conciata in quel modo...

Ciò nonostante l’avrei rivista volentieri, tornando a Bahía, ma sembrava che di tutti i personaggi che avevano popolato i miei precedenti viaggi non vi fosse più traccia al Pelourinho. Quelli che avevo rivisto avevano rivelato la loro vera natura. E nessun altro incontro degno di nota. Tutto convergeva nel farmi considerare conclusa quella vicenda all’insegna della disillusione, del crudo realismo.

Eppure qualcosa di sorprendente accadde. Mi trovavo sulla terrazza di un baretto sul lungomare di Barra, uno degli ultimi giorni della mia permanenza, immerso esattamente in questo tipo di pensieri. Anzi cercavo nella memoria il nome di quella ragazza conosciuta qualche anno prima, che ora mi sfuggiva. In quel preciso istante dietro di me udii una voce nota, timbro e cantilena inconfondibile: «Mónica!?...». Il nome mi era tornato alla mente prima ancora di voltarmi per cercare con gli occhi la sua figura. «Mónica! É você?!...». Era lei, davvero. Il sorriso, lo sguardo sognante, appena un po’ più pienotta nel volto e nel fisico. Mi riconobbe, era sorpresa, e contenta di vedermi. In breve mi raccontò le sue ultime vicende. In effetti per un periodo era stata male, aveva fatto una vita disgraziata, fra alcool, fumo e tutto il resto: «Eu fiz muitas coisas ruím, tava louca...». Era arrivata vicina a rischiare la pelle, poi la svolta: aveva conosciuto un bravo ragazzo, si erano messi insieme, si erano sposati, ora avevano due figli, uno naturale ed uno adottato, e gestivano la pousada che stava proprio lì, sopra il bar dove mi ero seduto e dove stavo prendendo un succo di açaí. Cose che possono succedere solo a Bahía. Lei ormai usciva poco, non beveva più, al massimo una cervezinha, accudiva i figli e dava una mano a tenere la pousada. Non erano ricchi, ma tutto sommato non se la passavano male, non le mancava niente, stava bene.

Le dissi: «Ricordi quello che ti dicevo? Che avresti trovato um rapaz bom, un bravo ragazzo che ti avrebbe voluto bene?». Ricordava, certo. Mi ringraziò ancora: «Você foi muito bom comigo, me ajudou...».

Anche questo episodio in fondo contribuiva a segnare il compimento di quella mia esperienza brasiliana iniziata avventurosamente sette anni prima. Però qui la conclusione non era di segno negativo. A differenza di Ícaro, Mónica in qualche modo era riuscita a tirarsi fuori dalla palude. L’illusione creata dalla scrittura letteraria era presto caduta lasciando il posto al disincanto, ma ora la realtà stessa rispondeva a tono, affermando una nuova possibilità: le cose potevano cambiare, c’era sempre una speranza di riscatto. E mi piaceva pensare che là dove la parola scritta aveva fallito, poteva aver contribuito al cambiamento la parola detta: non tanto quella di una predizione un po’ di circostanza, quanto il messaggio positivo che scaturiva dalla coerenza tra parole e comportamenti.

Mi trovavo ancora a divincolarmi tra stereotipi di segno opposto coi quali avevo dovuto fare i conti più di una volta durante tutti quei viaggi, buonismo e luoghi comuni. Per quanti sforzi uno possa compiere, nessuno ne è del tutto esente. E la realtà, appena credi di averla colta, si rovescia nel suo contrario.

Mónica si congedò molto cordialmente, ma prima di andar via mi chiese: «Non hai portato un regalo per me?» – «Quale regalo?» – «Um presente, não sei, um perfume, uma camiseta...». Ma benedetta ragazza, come potevo sapere che ti avrei incontrata di nuovo?... Magari la prossima volta, a próxima vez, né, menina?

Moena, 17 ottobre 2010.