Era difficile intrattenersi con Dieter Kattenbusch senza finire prima o poi a parlare di Vivaldi. No, non il grande musicista italiano, ma VIVALDI come acronimo (Vivaio Acustico delle Lingue e dei Dialetti d’Italia) di un progetto di atlante linguistico sonoro che stava a cuore allo schivo professore tedesco esperto di dialetti. Non potevi sottrarti alla sua cortesia garbata e dovevi metterti al computer e giocare con lui, cliccando nelle diverse regioni d’Italia la stessa parola pronunciata nei luoghi più ignoti e improbabili in dialetti simili, ma mai identici.

Dopo un po’, superata la sorpresa, ci prendevi gusto anche tu e cominciavi a suonare la musica della lingua parlata apprezzandone le differenze e rincorrendole da un luogo all’altro come un bene prezioso da proteggere non meno che piante o animali in estinzione.

 - Portrait


Ugo Perone, Professore ordinario di Filosofia morale presso l’Università del Piemonte orientale (Italia), dove dirige altresì l’Istituto di Studi umanistici. Ha conosciuto Dieter Kattenbusch durante il periodo della sua permanenza a Berlino come Direttore dell’istituto italiano di cultura (2001–2003). Nel 2004 ha fruito di una borsa di ricerca Humboldt presso la cattedra di italianistica.

E allora, proprio in quel momento, i pezzi mancanti del puzzle cominciavano ad apparirti per quello che sono: luoghi di un inesplorato territorio linguistico che attendono di essere salvati. E ti appassioni alle storie che Kattenbusch ritrosamente racconta. Sei anche tu con lui, metà esploratore e metà scienziato, metà dilettante che si diverte e metà professore che cataloga; giri con lui su automobili improbabili e con un’attrezzatura piuttosto rudimentale per raccogliere testimonianze e conservare suoni. Anche tu, come lui, ti metti alla caccia di quattro soldi per finanziare un programma che le scarse risorse rendono più lungo e difficile, e persino mettono in pericolo nella sua riuscita globale.

Ma ne valeva la pena? Valeva tanta fatica per raccogliere suoni dispersi minacciati dalla morte? Gli esperti diranno certo meglio di me le ragioni del sì, illustrando non solo quanto in questo modo sia stato possibile salvare e trasmettere, ma anche facendo intendere quali connessioni una raccolta così sistematica possa consentire e come essa sia in grado di gettare uno sguardo più profondo sulle leggi che presiedono alla trasformazione delle lingue. Io, profano, ne vorrei aggiungere una: in quel progetto c’è uno stile, scientifico e umano. L’attenzione al particolare e alla sua fragilità, l’amore per un fare sobrio e accogliente, che include e protegge, la schiettezza delle cose semplici.

Così ho conosciuto Dieter Kattenbusch a Berlino nel tempo mai abbastanza rimpianto della mia direzione dell’istituto italiano di cultura e poi di una breve coda come borsista Humboldt presso il suo istituto. Tra gli italianisti una figura eccentrica e in qualche modo appartata, ma aperta alla collaborazione con generosità e senza riserve.

Non so se l’ho apprezzato a partire da VIVALDI o ho apprezzato VIVALDI a partire lui. So che, come si dice, lo stile è l’uomo. Ed è questo che ho intravisto in lui e di cui lo ringrazio. Ma non solo. Ora che la sorte mi ha riportato a un impegno di politica culturale, come assessore alla cultura e al turismo della provincia di Torino, il lavoro di Kattenbusch mi accompagna come un’ombra lunga e benevola. Mi tocca infatti occuparmi di lingue minoritarie, un terreno di elezione del suo lavoro scientifico. Nella nostra provincia, infatti, tre (il francese, l’occitano, il francoprovenzale) sono le lingue riconosciute e tutelate da una legge nazionale del 1999 (la legge 482). E proprio a partire dalla nostra esperienza di lavoro in rete abbiamo all’inizio di luglio di quest’anno, all’interno delle celebrazione per i 150 anni dell’unità d’Italia, indetto un convegno nazionale per monitorare lo stato di salute delle 12 lingue riconosciute nel nostro territorio nazionale.

Nell’inaugurarlo, ancora una volta, ho avvertito un senso di fraternità con il lavoro di Kattenbusch. E mi sono tuffato fra le differenze e le contiguità dei linguaggi: oltre a quelli già citati, le lingue delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il friulano, il ladino e il sardo. Non ho potuto sottrarmi a un’impressione di continuità, scaturita misteriosamente al di là delle rispettive competenze disciplinari e aiutata, non meno misteriosamente, dal caso. Ma la continuità maggiore, ben oltre l’incrocio dei temi, la continuità a cui vorrei davvero ispirarmi resta quella di riprenderne lo stile umano e scientifico.