A mo’ di premessa

Fig. 1: Guarana

Guarana

Parlare di caffè da un punto di vista prettamente antropologico e storico-culturale non può farcene dimenticare l’aspetto meramente economico-commerciale non privo di rilevanza. Se per lo studioso dei Cultural Studies tale bevanda rappresenta un fenomeno all’origine di mode e modi di consumo che hanno largamente influenzato i costumi occidentali e i luoghi e le forme di sociabilità degli ultimi tre secoli, per l’economista di professione il caffè resta una merce che ogni anno dà vita – a livello mondiale – al più alto volume di scambi dopo il petrolio. Secondo il rapporto 2011 dell’International Coffee Organization (ICO), infatti, solo nel periodo 2010–2011 il totale della produzione mondiale di caffè è stato stimato in 133,3 milioni di sacchi, con un incremento dell’8,2 per cento rispetto all’anno precedente (cfr. International Coffee Organization). Oltre l’86 per cento della produzione mondiale è costituito dai dieci maggiori paesi esportatori, otto dei quali (Brasile, Vietnam, Colombia, Etiopia, Guatemala, Messico, Honduras e Uganda) hanno registrato un significativo aumento della produzione con un effetto positivo nelle relative bilance dei pagamenti. Considerando che i Paesi produttori di caffè appartengono al cosiddetto “Terzo mondo”, va rilevato che questo prodotto rappresenta una delle principali fonti di sostentamento delle economie in via di sviluppo. Parallelamente alla produzione sono aumentate anche le esportazioni a livello mondiale.

Roberto Ubbidiente - Portrait


Roberto Ubbidiente, Dr., Lehrkraft für besondere Aufgaben am Institut für Romanistik der Humboldt-Universität zu Berlin. Studium der Geisteswissenschaften an der Universität Salerno (Italien), Promotion am Institut für Romanistik der Universität Wien, Übersetzer- und Dolmetscherausbildung an der Universität Wien, seit 1999 an der Humboldt-Universität.

In totale, nel periodo che va dall’aprile 2010 al marzo 2011 sono stati esportati 101 milioni di sacchi da 60 kg ciascuno, toccando un livello senza precedenti. Il forte aumento delle esportazioni è dovuto ad un incremento della domanda mondiale, tanto che, nonostante i record battuti, si teme che le esportazioni non riusciranno alla fine a soddisfare l’intera domanda, in costante aumento su tutti i mercati nazionali (il consumo globale per il 2010 è stato pari a 134 milioni di sacchi). Tutto ciò fa del caffè un vero e proprio “oro nero” il cui volume d’affari, contrariamente ad altri prodotti, anche di prima necessità, non sembra conoscere crisi.

Fig. 2: Pianta di caffè

Pianta di caffè

Per quanto riguarda, invece, il consumo mondiale pro capite, si constata non senza sorpresa che al primo posto risultano i paesi scandinavi con 10 kg annui, seguiti dall’Italia con 4,4 kg. Dei 400 miliardi di tazzine di caffè consumate ogni anno in tutto il mondo ben 600 vengono bevute pro capite in Italia. Di queste il 70 per cento viene consumato in casa, il 20 per cento al bar e il 10 per cento sul posto di lavoro. Ma le fredde statistiche non rendono ragione delle differenze culturali e di costume. Sappiamo, infatti, che nei paesi nordici e negli USA la principale funzione del caffè è quella di accompagnare, durante i pasti, ogni tipo di piatto. In Italia, invece, il caffè è riservato alla colazione o alle pause nel corso della giornata. E va bevuto ristretto, denso e cremoso. Ciò identifica il caffè con l’espresso, che per gli italiani viene ad essere sinonimo e unico modo di preparare l’“oro nero”. Come regalo, il caffè ha una sua simbologia legata all’amicizia e all’amore. Sin dal Seicento, infatti, era diffusa l’usanza, per i corteggiatori, di regalare alle proprie adorate vassoi colmi di caffè quale prezioso pegno del loro amore, mentre l’accoppiata di zucchero e caffè rappresenta ancora oggi – soprattutto nel costume meridionale – un classico regalo in occasione di visite di condoglianza o di cortesia.

1 Dall’Oriente alla conquista dell’Europa

1.1 In principio era … il mistero

Come per tutte le cose buone e apprezzate in cucina (si pensi alla pizza, alla pasta ecc.), anche per l’“oro nero” sono in molti a vantarsi di averlo scoperto e di avergli dato i natali, con la conseguenza che il caffè è oggi considerato bevanda nazionale in molti Paesi, dal Brasile all’Italia. Se, dunque, non v’è dubbio che l’espresso italiano sia il tipo di caffè più conosciuto al mondo, resta da appurare se il caffè sia la più italiana delle bevande esotiche ovvero la più esotica delle bevande italiane.

In realtà, poco si sa storicamente dell’origine di questa bevanda e molte sono, invece, le leggende legate alla sua scoperta più o meno casuale. Un aiuto a chiarire la vexata quaestio della sua genesi può venire dall’origine della pianta e dall’analisi del suo nome: la Coffea arabica è infatti originaria dell’Etiopia e il suo nome deriverebbe dalla regione di Kaffa in cui il caffè sarebbe stato originariamente scoperto.

Tuttavia, secondo Pellegrino Artusi (1820–1911), autore del celeberrimo trattato La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene (1891), il miglior caffè è quello proveniente dalla città yemenita di Moka e ciò potrebbe fornire la chiave per individuarne il luogo d’origine. Per l’Artusi, infatti, il caffè sarebbe nato casualmente dall’osservazione, fatta da alcuni monaci (altri vogliono da un pastore di nome Kaldi), che le capre, dopo aver mangiato le bacche rosse di un certo arbusto, diventavano più vivaci e irrequiete. Così, per combattere i colpi di sonno, principale nemico delle preghiere notturne, i monaci avrebbero provato a rendere commestibili anche per l’uomo le bacche di quella pianta, abbrustolendole, macinandole e facendone un infuso. Un’altra leggenda vuole, invece, che le bacche bollite dell’arbusto abbiano salvato la vita ad un arabo di nome Omar e ai suoi compagni, condannati a morire di fame nel deserto vicino alla città di Moka.

Stando agli enciclopedisti francesi, riferimenti al caffè si troverebbero addirittura nel testo dell’Odissea, né mancano, nella leggendaria genesi del caffè, echi biblici e religiosi in genere. Così, sarebbero in realtà chicchi di caffè sia il «grano tostato» regalato da Abigail a David in segno di riconciliazione (cfr. 1 Sam 25, 18ss.) sia le «pietre [= bacche] preziose» regalate dalla regina di Saba a Sansone (cfr. 1 Re 10, 2ss.). Né i riferimenti religiosi restano circoscritti al solo ambito giudaico-veterotestamentario, ché di caffè l’arcangelo Gabriele avrebbe fatto dono a Maometto in persona, onde vincere la sonnolenza.

Se la leggenda fa risalire l’origine del caffè all’VIII secolo a.C., le prime testimonianze storicamente accertate sulla bevanda sono di molto posteriori. È infatti all’incirca intorno all’anno Mille che Avicenna prescrive il bunc (nome abissino del caffè) come forte antidepressivo e digestivo (soprattutto per cibi troppo pesanti e grassi).

Sulla scia di Avicenna, il caffè interessò medici e scienziati occidentali già prima di approdare in Europa. Essi ne studiarono le caratteristiche e gli effetti sull’uomo, lasciando molti studi nella trattatistica cinque-seicentesca. La prima descrizione “medica” del caffè stampata in Europa fu opera di un medico di Augusta di nome Leonhard Rauwolf che tra il 1573 e il 1576 visitò Gerusalemme e il Medio Oriente. Nel suo diario di viaggio, pubblicato nel 1582 col titolo Reiß in die Morgenländer, egli loda il «guet getränck» per le sue proprietà curative, soprattutto per lo stomaco, offrendoci uno spaccato sul modo in cui essa viene consumata in quelle terre lontane:

ein guet getränck, welliches sie hoch halten, Chaube von jnen genennet, das ist gar nahe wie Dinten so schwartz vnd in Gebresten, sonderlich dess Magens, gar dienstlich. Dises pflegens am Morgen frü, auch an offnen orten, von jedermeniklich one alles abscheuwen zu trincken, auß jrrdinen vnnd Porcellanischen tieffen Schälein, so warm alß sies könden erleiden, setzen offt an, thun aber kleine trüncklein, vnd lassens gleich weitter, wie sie neben einander im krayß sitzen, herumb gehen. Zu dem Wasser nehmen sie Frücht Bunnu von Innwohnern genennet, die außen inb jrer größe vnd farb, schier wie die Lorbeer, mit zwey dünnen Schelflein umbgeben, anzusehen vnd fernerer jren alten berichten nach, auss India gebracht werden [...]. Dieser Tranck ist bey jnen sehr gemein, darumb dann deren, so da solches ausschencken, wie auch der Krämer, so die Frücht verkauffen, in Batzar hin jnd wider nit wenig zu finden; so haltens das auch wol so hoch vnd gesund seyn, als wir bey vns den Wermutwein, oder noch andere Kräuterwein.1

Di qualche decennio successivo è, invece, la descrizione dell’“acqua nera” e delle sue proprietà digestive fatta da Jean de Thévenot, altro viaggiatore europeo in Vicino Oriente. In ambito italiano si distinguono gli studi di Prospero Alpini e del medico bolognese Angelo Rambaldi. Quest'ultimo si dedicò all’Ambrosia arabica (1691),2 rilevando che il caffè

non solo teneva svegli senza diminuzioni di forze, ma corroborava lo stomaco, asciugava le flussioni, preservava dai calcoli e dalla gotta, sradicava le ostruzioni, quietava i tumulti delle parti naturali, cioè di “affetti ipocondriaci”, sollevava gli idropici, raffrenava gli isterici, apriva copiosamente le urine e le “purghe” delle donne, aiutava le gravide, preservava dalle febbri intermittenti col solo fumo, aguzzava la vista e faceva effetti che per essere fra di loro contrari, parevan fuori dall’ordine di natura.3

Una diagnosi medica, sia pur non basata su cognizioni specifiche, ci viene dalla cerchia degli Illuministi meneghini, sancendo la giustezza della bevanda per questo tipo di intellettuale:

Il caffè rallegra l’animo, risveglia la mente, in alcuni è diuretico, in molti allontana il sonno, ed è particolarmente utile alle persone che fanno poco moto e che coltivano le scienze.4

Fig. 3: Enjoying Coffee

Nel corso del Cinquecento il caffè lascia i territori originari dell’Arabia e dello Yemen per diffondersi prima in Turchia e di lì conquistare l’Europa e le Colonie del Nuovo Mondo. Probabilmente al 1475 risalgono le prime botteghe di caffè di Costantinopoli. Pertanto, nonostante l’origine araba, nell’immaginario collettivo europeo sarà la Turchia ad essere associata alla bevanda nera. Ciò non a caso, visto che, come avverte Maurizio Galli,

[i]n Turchia il caffè è un’istituzione che ha i suoi ministri, i suoi sacerdoti e i suoi ferventi. La carica di «gran caffettiere» (kahveci başı) presso il Sultano è più importante di quella di primo ministro, perché, se non altro, è più stabile. […] Poiché qui si beve del caffè da mattina a sera, a tutte le ore del giorno, senza ragione, senza contare, come si fuma una sigaretta; da tutti, dovunque. Dal moka delizioso, al profumo inebbriante [sic], che lo schiavo vi offre nelle case turche, servito in minuscole tazze introdotte negli zarfs d’argento, al modesto caffè mescolato a ceci abbrustoliti e ridotti in polvere finissima, che si vende a uno o due soldi negli innumerevoli caffè della città, il consumo che si fa di questa bevanda è favoloso. Nelle piazze, nei cortili delle moschee, ad ogni angolo di via – propizio –, si trovano caffettieri ambulanti che in un primitivo fornello fanno cuocere del caffè che servono ai numerosi clienti di passaggio da mane a sera.5

La straordinaria diffusione del caffè nella società turca aveva del resto già fatto restare a bocca aperta l’anonimo compilatore degli Annali Universali di Statistica del 1825, allorquando notava che

[l]a passione degli Orientali per questa bevanda è al di là d’ogni dire. In tutti gli ordini dello stato, gli uomini, le donne, i fanciulli ne prendono ad ogni istante del giorno. Dappertutto ove si vada, qualunque visita si faccia, fra i grandi, fra gli artigiani, fra i Maomettani, fra i Cristiani, nelle case, negli uffici, nei magazzini, nelle botteghe, alla città, alla campagna, i padroni di casa cominciano sempre col presentare il caffè: se la visita è lunga, si porta una seconda, una terza tazza.6

1.2 “Wiener Blut”

Dopo la diffusione in Anatolia, nel corso del Cinquecento, dovranno passare quasi due secoli prima che l’“oro nero” possa diffondersi in Europa. Secondo la vulgata, il caffè sarebbe arrivato in Europa nel 1683 in seguito al secondo assedio turco della città di Vienna. Sbaragliati gli Ottomani, infatti, nel loro accampamento furono rinvenuti, insieme a merci e tesori vari, sacchi di strani chicchi tostati fin’allora sconosciuti agli Occidentali. Stando alle fonti storiche, l’accampamento turco contava ben ventidue tende nelle quali i vincitori rinvennero viveri di ogni genere, tra cui:

Tausende von Tieren – Ochsen, Kamele, Maultiere, Schafe – Tausende Säcke voll Getreide und Reis. Unabsehbar die Töpfe voll der herrlich orientalischen Gewürze. Vieles war darunter, was die Bürger Wiens zum erstenmal sahen: exotische Tiere und so manchen Topf oder Sack, angefüllt mit Dingen, deren Verwendungszweck völlig unbekannt war. Unter anderem fand man zahlreiche Säcke mit Bohnen, anderen allerdings, als man hierorts kannte.7

Fig. 4: Franz Koltschitzky

Franz Koltschitzky

Fu Franz Koltschitzky, una sorta di “turco viennese” di origine polacca, poliglotta, cosmopolita e viaggiatore, a riconoscere in quei «Bohnen» gli stessi chicchi che aveva visto nel corso dei suoi viaggi nelle caffetterie di Istanbul. Fiutato l’affare, come ricompensa per i servigi resi (aveva avuto un ruolo fondamentale nel recapitare dispacci militari segreti) Koltschitzky si fece regalare i sacchi di caffè dall’imperatore asburgico e, forte del Privileg des Kaffeeausschanks concessogli dal monarca, aprì poco dopo “Zur blauen Flasche”: la prima bottega in città (e, a quanto pare, in Occidente) in cui si mescesse il cosiddetto “vino d’Arabia”.

Inizialmente, i viennesi non sembrano trovare di proprio gusto la bevanda esotica, ma quando Koltschitzky vi aggiunge latte e miele, dando così vita all’antenato della Wiener Melange, è un vero e proprio trionfo.

Fig. 5: Bottega del caffè di Franz Koltschitzky

 Bottega del caffè di Franz Koltschitzky

Se è vero, che la storia di questo primo caffettiere viennese è più legata alla leggenda che alla storia, è anche vero che il primo caffè di Vienna aprì i battenti proprio in quegli anni (precisamente nel 1685) per opera di un certo Johannes Diodato. Dopodiché le cronache viennesi narrano di caffè che spuntano come funghi. Certo, queste prime caffetterie sono ancora lontane dall’essere quell’istituzione socio-culturale che diventerà più tardi il Kaffeehaus della capitale asburgica. In considerazione delle ristrettezze dovute al lungo assedio e che caratterizzarono ancora l’immediato dopoguerra, invano vi si sarebbe cercata quella G’mütlichkeit che caratterizzerà più avanti il tipico caffè viennese ottocentesco. Anzi, a quanto pare l’arredamento era piuttosto spartano:

Es waren also, um es genauer zu bezeichnen, Kaffeekatakomben, die, nur mit dem allernotwendigsten Material ausgerüstet, die Leute zum Genuß dieses orientalischen Getränks einluden. Ein offenes Feuer vor der Tür und türkische Embleme an der Hausmauer warben für diese ersten Kaffeeschenken.8

In realtà, stando alle fonti storiche, i primi caffè europei aprirono i battenti già alla metà del secolo e quindi ben prima delle “catacombe” viennesi. Tuttavia, la diffusione della nuova bevanda nell’Europa cristiana e cattolica non poteva dirsi certo incontrastata. In particolare, il fatto che il “vino d’Arabia” provenisse dall’Oriente islamico attraverso l’Impero ottomano contribuì a generare remore e pregiudizi di natura religiosa e culturale nei suoi confronti, tanto che non si tardò a definirne “diabolici” gli effetti. A ciò spingevano soprattutto considerazioni in merito al suo colore (nero come gli Inferi) e al suo sapore (amaro e scottante come le pene e il fuoco dell’Inferno). Così, il caffè fu oggetto di un vero e proprio ostracismo messo in atto da ambienti conservatori che in esso vedevano un pericolo per i valori e le tradizioni avite. Tracce di questa avversione, che di lì a poco diventerà sinonimo di misoneismo e antimodernità, sono riscontrabili nel celebre giudizio del cerusico secentista Francesco Redi:

Beverei prima il veleno
che un bicchier che fosse pieno
dell’amaro e reo caffè!
[…]
E se in Asia il musulmano
se lo cionca a precipizio
mostra aver poco giudizio!9

In questo “scontro tra culture” ante litteram si arriverà a chiedere al Papa di scomunicare il caffè – bevanda “pagana” – e tutti coloro che ne avrebbero fatto uso, ai quali si arrivò a predire che il giorno del Giudizio universale le loro anime sarebbero uscite dalla tomba nere come i fondi del caffè. Fortunatamente il Pontifex maximus, dopo aver assaggiato la nuova bevanda, ne dichiarò lecito il gusto, aprendole le porte – anzi: i porti (Venezia, Marsiglia e Amsterdam) – della Cristianità. Delle prime botteghe di caffè furono quindi aperte in Italia (1645), in Inghilterra (1652) e a Parigi (1672), anche se per avere il primo caffè a Berlino bisognerà attendere fino al 1721.

Di lì a poco Johann Sebastian Bach canterà le lodi della bevanda nella celebre Kaffeekantate, composta nel 1734–5 su testo di Picander (alias Christian Friedrich Henrici), la cui protagonista, la giovane Liesgen, è un’appassionata bevitrice di caffè, sfidando in questo il divieto paterno:

Ei! wie schmeckt der Coffee süße,
Lieblicher als tausend Küsse,
Milder als Muskatenwein.
Coffee, Coffee muß ich haben,
Und wenn jemand mich will laben,
Ach, so schenkt mir Coffee ein!10

Intanto, la diffusione del caffè (e dei Caffè) in Europa sembra inarrestabile, anche per merito di imprenditori italiani come il palermitano Francesco Procopio dei Cutelli, che nel 1686 aprì il primo caffè di Parigi, il celebre “Le Procope”.

1.3 L’oro nero della Serenissima

In Italia, il caffè fece il suo ingresso attraverso i grandi porti delle rotte commerciali con l’Oriente, primo tra tutti Venezia (da sempre in prima fila negli scambi commerciali con i paesi dell’Est) in cui il primo carico di caffè documentato fu sbarcato nel 1624. Non è perciò casuale che una delle più antiche e prestigiose “caffetterie” italiane – il “Caffè Florian” – abbia visto la luce proprio sotto i portici di Piazza S. Marco.

Fig. 6: Il ritorno del Bucintoro

Il ritorno del Bucintoro

La cultura del caffè a Venezia gode di secolare e radicata tradizione, se è vero che ancora nel 1904 dalle pagine de «La Lettura» Pompeo Molmenti si chiedeva:

Quante cose hanno veduto e udito le pareti dei caffè veneziani, dove si potrebbe rintracciare la storia della vita intima della città singolare, dove il commercio, la maldicenza, gli amori ordiscono ancora le loro tele. d[sic]ove restano ancora nell’aria un po’ di profumo della vecchia ilarità veneziana e un po’ della piacevolezza di spirito dei nostri nonni!11

Finendo, poi, per constatare:

Nessuno, più del veneziano, ama trascorrere le ore nelle piccole ed eleganti stanze dei suoi [= di Venezia] caffè, sorbendo a centellini l’amaro succo.12

A quanto pare, la prima “Bottega” veneziana aprì i battenti nel 1683 “sotto le Procuratie nuove”, ossia sul lato Sud di Piazza San Marco. Ad essa seguiranno altri ventitré caffè, tutti sulla stessa Piazza, tra cui il più celebre è senz’altro “Alla Venezia trionfante”, aperto nel 1720 da Floriano Francesconi e successivamente diventato l’attuale “Caffè Florian”.

La moda del caffè non tardò ad estendersi da Venezia a tutta la terraferma veneta. Tra i più celebri caffè veneti il celeberrimo Caffè Pedrocchi di Padova fornisce un esempio di identificazione di un’intera comunità urbana con il più popolare luogo di sociabilità cittadina. Come, infatti, ebbe a notare Giuseppe Adami, «tutto il cuore di Padova puls[a] in una bottega di caffè»,13 avvertendo che

[d]a noi, oramai per una ragione di abitudini che ci è venuta col sangue, ogni faccenda, ogni affare, ogni movimento della vita quotidiana si repercote [sic] e si svolge al tavolino del caffè; e ad esso convengono così i minuti pettegolezzi della cronaca mondana come le grandi negoziature che spostano ed agitano terre e agricoltori, come le quistioni [sic] politiche e, nei momenti di crisi, le idee audaci e le audacissime decisioni.14

1.4 All’ombra del Cupolone

Come capitale del retrogrado Stato pontificio la Città eterna non possiede i presupposti per competere con le capitali europee e le altre città più all’avanguardia sia strutturalmente sia dal punto di vista economico e culturale. Per sua natura lo Stato ecclesiastico è piuttosto restio a innovazioni e ammodernamenti e appare alquanto chiuso verso possibili mode e influssi provenienti dall’estero (laddove “estero” erano anche città come Venezia, Firenze, Torino e Napoli), tanto più che in pieno Settecento la Chiesa si sente fortemente minacciata dalla filosofia materialistica dell’Illuminismo e dall’anticlericalismo che spesso accompagna le riforme dei sovrani europei (risale a quest’epoca per es. la soppressione della Compagnia di Gesù in molti Paesi cattolici governati da “despoti illuminati”). La chiusura verso le mode e i costumi stranieri riguarderà ogni aspetto della vita pubblica – e quindi anche la moda delle “Botteghe del caffè”, che invece già spopolavano in altre città italiane ed europee.

Alla fine, però, anche Roma dovrà cedere alla sempre più pressante domanda proveniente soprattutto dai giovani rampolli europei che nella Città eterna coronavano il loro Grand tour con un soggiorno di alcuni mesi in cui non intendevano affatto rinunciare alla moda del caffè cui li avevano abituati le città di provenienza. Il Papa autorizzò, dunque, l’apertura delle “Botteghe” anche a Roma, riservandone inizialmente l’uso ai soli stranieri. Una breve indagine onomastica dei primi Caffè romani mostra chiaramente il carattere esotico cui il nuovo tipo di locale e la bevanda in esso servita venivano associati: tra le prima “Botteghe” della città troviamo il “Caffè Turco a Campo Marzio”, il “Caffè degli Inglesi” o il “Caffè Greco” e la “Bottega dal Caffè del Veneziano” in Piazza Sciarra, così chiamato in onore ad una collaborazione avviata dai proprietari (la famiglia Ricci) con un caffettiere della Serenissima. Fu in particolare merito del “Caffè del Veneziano” quello di servire per la prima volta lo zucchero a parte, ossia separato dalla tazzina; un uso che si diffonderà ben presto in molte città.

Il 1860 fu un anno memorabile per la storia del “Veneziano”. Da poco era stato rinnovato per l’ennesima volta l’arredamento del locale: grandi specchi e lampadari a gas, divani di velluto rosso che spiccavano sullo sfondo di una lussuosa tappezzeria verde. Ma proprio il rosso dei divani e il verde della tappezzeria, unitamente al bianco del soffitto, indussero la polizia ad aprire un’inchiesta per cospirazione contro lo Stato pontificio, dal momento che la combinazione dei colori venne interpretata come un sostegno al tricolore “italiano” e una forma di propaganda ideologica delle idee risorgimentali e anticlericali.

Dieci anni dopo, all’indomani della Breccia di Porta Pia, in una Roma ormai divenuta capitale del Regno, i Caffè saranno interessati dalla battaglia politica tra i filopiemontesi e i sostenitori del Papa che si ripercuoterà persino sul consumo e sui gusti degli avventori. Se, infatti, i “Sabaudi” manifesteranno il loro appoggio al nuovo Vittorio Emanuele e all’Italia unita consumando litri di “piemontesissimo” vermouth (introdotto in città proprio dall’esercito sabaudo) e chili di gelato “tricolore” al gusto di fragola-limone-pistacchio, facendone, in tal modo, un simbolo di appartenenza politica, i “papalini” da parte loro, risponderanno con un gelato di nuova invenzione al gusto di limone e zabaione: i colori della bandiera papale.

Un “Antico Greco” alla conquista della Città eterna

Agli occhi dei “touristi” stranieri Roma si presentava in tutta la sua bellezza classica e barocca ma non offriva certo il confort e gli standard delle altre capitali. La sia pure tardiva apertura dei Caffè fu quindi salutata soprattutto dai numerosi giovani artisti stranieri che trascorrevano lunghi periodi di studio in città. Una delle prime testimonianze cui è legato il Caffè più celebre di Roma, l’“Antico Caffè Greco”, è una lettera di Pierre Proudon che, a proposito degli artisti che solevano ritrovarvisi, riferisce della maldicenza e del pettegolezzo che caratterizzava i reciproci giudizi in questa cerchia. Innumerevoli le carriere verbalmente stroncate, altrettante le reputazioni distrutte – perfino Raffaello non si salva dall’accusa di non essersi sufficientemente ispirato agli antichi. Va da sé che gli autori di queste critiche sono sempre artisti mancati o inetti, gente, dice Proudon, che ama perder tempo. Nell’Ottocento il “Greco” godette di un successo incontrastato, rappresentando per antonomasia il Caffè della capitale. Da allora la cultura del caffè a Roma ha un indirizzo principe famoso in tutto il mondo: Via dei Condotti 86.

Fig. 7: Caffè Greco: Saletta

Caffè Greco: saletta

Del fondatore ellenico dello storico “Caffè Greco” conosciamo solo il nome italianizzato: Nicola di Maddalena. Per la sua “Bottega” egli scelse un angolo di Roma – Via Condotti con l’adiacente Piazza di Spagna – che nel Settecento risultava animato da artisti e “touristi” stranieri, soprattutto tedeschi e scandinavi in genere, che nelle immediate vicinanze avevano i loro ateliers. Fondato nel 1750, il “Caffè Greco” fu subito un successo, tanto che il monolocale iniziale risultò ben presto troppo piccolo per le orde di avventori che ogni giorno lo prendevano letteralmente d’assalto. Infatti, il “Greco” divenne subito meta fissa della colonia di artisti tedeschi nonché letterati e musicisti stranieri di passaggio per la Città eterna, tanto da renderne l’atmosfera del tutto particolare:

Fig. 8: Caffè Greco: Saletta

Caffè Greco: saletta

Gaie brigate di artisti vi affluivano; discussioni letterarie vi si accendevano; e il Caffè […] ha veduto aggirarsi fra le sue mura, e sedersi ai suoi tavoli, Goethe e Goldoni, Schopenhauer e Bizet, Böcklin e Mendelssohn, Gogol e Gounod, Wagner e Lembach, Liszt e Berlioz, Mickiewicz e Mark Twain, e moltissimi altri celebri artisti, musici, letterati, pittori, filosofi, poeti fino a Coleman e a Cesare Pascarella. Ed ognuno vi ha lasciato un’orma non banale del suo passaggio: un dipinto, uno scritto, un disegno, una statuetta, una caricatura, un sonetto.15

Ciò fa del “Greco” un piccolo museo ed una stratificazione culturale della città. Il Caffè fa addirittura concorrenza ai monumenti romani:

Hier [...] ist einer der atmosphäregesättigten Orte Roms, von denen sich viele Reisende fast noch stärker angezogen fühlen als von den römischen Kunstschätzen. Warum? »Es hängt einfach in den Wänden«, schrieb der Rom-Kenner Reinhard Raffalt, »in dem verschossenen Plüsch, in den mittelmäßigen Ölbildern, die aus Gründen unbezahlter Rechnungen hier aufgehängt sind, an den Gipsfiguren und den martervollen Stühlen – man sieht sie förmlich noch die genialischen Pfeifenraucher, voll Nachlässigkeit und Einbildungskraft, in summa: es ist der Hauch einer der Kunst zugeneigten Zeit, der uns anweht, wohltuend verstaubt in unserer polierten Epoche.«16

1.5 La celeberrima “napoletana”

Come a Milano, ma diversamente da Roma, nella Napoli settecentesca aleggiava un forte spirito illuministico che non mancò di coinvolgere l’uso e l’immagine del caffè, in linea con gli altri centri di cultura europei. La Rivoluzione napoletana che nel 1799 portò la Repubblica sotto il Vesuvio ha il suo personaggio-simbolo in una donna: Eleonora Fonseca Pimentel. Di lei Vincenzo Cuoco scrive nel suo Saggio sulla rivoluzione napoletana del 1799:

Si spinse nella rivoluzione, come Camilla nella guerra, per solo amor della patria. Giovinetta ancora, questa donna avea meritata l’approvazione di Metastasio per i suoi versi. Ma la poesia formava una piccola parte delle tante cognizioni che l’adornavano. Nell’epoca della repubblica scrisse il Monitore napolitano, da cui spira il più puro ed il più ardente amor di patria. Questo foglio le costò la vita, ed essa affrontò la morte con un’indifferenza eguale al suo coraggio. Prima di avviarsi al patibolo, volle bevere [sic] il caffè, e le sue parole furono: «Forsan haec olim meminisse iuvabit».17

Fig. 9: Napoli e il Golfo

Napoli e il Golfo

Aria del tutto diversa tirerà invece nella Napoli ottocentesca! A proposito della capitale francese, Jules Michelet aveva sostenuto che «Paris devient un grand café». In Italia quest’eredità viene raccolta prima di tutto da Napoli, la più parigina delle città italiane, dove per prima arriverà d’Oltralpe la moda del Caffè chantant, presto assurta a simbolo della Belle Époque. Ben presto, però, Napoli vanterà una sua autonoma invenzione: il “Caffè concerto” con un numero che sarà il prototipo del moderno spogliarello! Entrambe le invenzioni hanno lo stesso padre, Luigi Stellato, che in collaborazione col musicista Francesco Melber fu autore della celebre canzone ’A cammesella, un duetto tra una coppia di sposini, in cui lui invita lei a denudarsi per mostrare le sue grazie. In poco tempo i “Caffè concerto”, tra i quali gli eleganti “Strasburgo”, “Birreria Monaco”, “Vermouth di Torino”, il “Gambrinus” e il “Caffè Turco”, spuntano come i funghi, e in una decina d’anni Napoli poteva vantare locali come il “Circo del Varietà”, il “Salone Margherita”, l’“Eden”, l’“Eldorado”, teatri che ospitarono le maggiori “chantose” della Belle Époque, divenendo luogo preferito per il lancio delle nuove canzoni. Ma il Caffè storico più famoso di Napoli doveva diventare il “Gambrinus” che aprì i battenti nel 1890 e col tempo arrivò a rappresentare il principale luogo di convegno di Napoli. Le sue sale, impreziosite da dipinti, marmi, stucchi, divennero una piccola galleria d’arte illuminata ben presto dall’energia elettrica. Le sale del “Gambrinus” hanno visto passare tutti gli intellettuali e gli artisti della Napoli otto-novecentesca tra cui Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio, Benedetto Croce, Eduardo De Filippo ed Enrico De Nicola. Diretto concorrente del “Gambrinus” fu il “Caffè Turco”, aperto nel 1885, in cui si organizzavano intrattenimenti musicali durante i quali il proprietario, vestito alla turca con un fez rosso in testa, era solito sorvegliare che tutto procedesse per il meglio.

Non ci volle molto perché il caffè diventasse la bevanda cittadina. Anzi quello napoletano divenne presto il caffè per antonomasia! Esso incarnò così bene lo spirito napoletano che fu anche oggetto di celebri canzoni popolari: da A tazz è cafè, in cui la tazzina di caffè – sotto dolce (per lo zucchero che vi si deposita) e sopra amara (prima di girare col cucchiaino) – viene paragonata, in un confronto volutamente a doppio senso, alla donna da conquistare, anch’essa “sotto dolce” e “sopra amara” (ossia refrattaria alle avances dello spasimante), alla più recente Na tazzulelle ‘e cafè di Pino Daniele, canzone-denuncia dei primi anni Ottanta contro il degrado della città e il disinteresse dei politicanti.

Fig. 10: Diversi tipi di “napoletana”

Diversi tipi di “napoletana”

A Napoli il caffè diventerà un vero e proprio rito, una cerimonia come quella del tè in Giappone; una cerimonia con i suoi tempi, i suoi ritmi, il suo officiante, i suoi strumenti “liturgici” e – perché no? – i suoi trucchi per riuscire meglio. Insomma la manifestazione di una vera e propria scuola di pensiero. Chi nell’immaginario comune sintetizza al meglio la filosofia partenopea del caffè è senz’altro Eduardo De Filippo, che nel suo Questi fantasmi la immortalò in un memorabile monologo.

Ma il più celebre contributo partenopeo alla cultura del caffè in Italia è senza dubbio la “napoletana”, che fu la caffettiera più diffusa fin quando, nel 1933, la mente creativa dell’ingegnere milanese Alfonso Bialetti non partorì la prima Moka Express dai chiari tratti Art Decò.

Fig. 11: La Moka Express

La Moka Express

Il proverbiale senso di umanità e l’ospitale cordialità dei napoletani hanno lasciato tracce nella loro cultura del caffè. Fu infatti nei bar di Napoli che vide la luce quello che può essere ritenuto il tipo più “buono” di caffè: il “sospeso”, ossia un espresso non consumato da chi lo paga (consumazione “sospesa”, appunto) ma destinato a qualche avventore meno abbiente di passaggio – un piccolo-grande segno di solidarietà sociale.

2 Va in scena il caffè

2.1 La “Bottega” goldoniana

Nel Settecento il caffè, inteso sia come bevanda sia come luogo di degustazione, si presenta come un’istituzione diffusa e accreditata in ogni paese. Non è, perciò, strano che questa moda abbia lasciato tracce nella letteratura coeva. Per l’Italia la consacrazione letteraria si ha nelle commedie di Carlo Goldoni, attento osservatore e critico della società veneziana. I loci goldoniani che riguardano la bevanda più alla moda nel Settecento sono davvero numerosi. In particolare, se ne parla in commedie come L’uomo di mondo, La vedova scaltra, Le femmine puntigliose, La putta onorata, La buona moglie, Il cavaliere e la dama, L’avvocato veneziano, Il padre di famiglia, Il teatro comico, Il contrattempo, Le donne curiose. Ma la consacrazione definitiva avviene con La bottega del caffè.

L’assiduità del topos testimonia della moda in cui era incorso il nuovo tipo di locale nella Venezia goldoniana, che – oltre ai numerosissimi teatri – contava altrettante numerose “Botteghe” dedite alla vendita del vino arabo. Con Goldoni il caffè riceve il suo sigillo di bevanda della emergente classe borghese e imprenditoriale della città, contrapposta a quella aristocratica (che beve cioccolata) e al popolo (che beve vino).

Ma è La sposa persiana a contenere quella che è forse la prima ricetta letteraria del caffè:

Ecco il caffè, signore, caffè in Arabia nato, […]
E dalle carovane in Ispaan portato.
L’arabo certamente sempre è il caffè migliore;
Mentre spunta da un lato, mette dall’altro il fiore.
Nasce in pingue terreno, vuol ombra, o poco sole.
Piantare ogni tre anni l’arboscel si suole.
Il frutto non è vero, ch’esser debba piccino,
Anzi dev’esser grosso, basta sia verdolino,
Usarlo indi conviene di fresco macinato,
in luogo caldo e asciutto, con gelosia guardato.
A farlo vi vuol poco;
Mettervi la sua dose, e non versarlo al fuoco.
Far sollevar la spuma, poi abbassarla a un tratto
Sei, sette volte almeno, il caffè presto è fatto.19

I Caffè delle commedie goldoniane offrono uno spaccato sociale della Venezia settecentesca non privo di un certo bozzettismo critico-sociale. In generale, la Bottega del caffè di goldoniana memoria è già attestata come luogo di sociabilità, ossia di incontro e scambio, ma anche di appuntamento (cfr. La vedova scaltra, Atto I, sc. 3: «Se non ci vedremo nell’albergo, ci troveremo al caffè»). Ben presto il Caffè diventa anche luogo di seduzione e addirittura adescamento. Si veda a tal proposito la Vedova scaltra, in cui a una Beatrice preoccupata delle “ciacole” da caffè («Un affronto alla mia casa? Come mai risarcirlo? Non si parlerà d’altro per i caffè. Sarò io la favola di Palermo»20) si accosta l’adescatrice Rosaura, assidua frequentatrice di Caffè:

Marionette: Dove troverete i vostri quattro adoratori?
Rosaura: Al caffè. Verso sera non mancano mai.
Marionette: Il cielo ve la mandi buona.
Rosaura: Chi non ha coraggio di procurare la sua fortuna, mostra espressamente di non meritarla. (parte)
Marionette: Io vedo che in Francia, in Inghilterra, in Italia e per tutto il mondo, le donne sanno molto bene dove il diavolo tiene la coda.21

Le raccomandazioni del caffettiere Ridolfo al suo cameriere Trappola sono forse la prima testimonianza delle mutate abitudini degli Italiani, che già a quell’epoca solevano far colazione al bar, ossia al Caffè:

Ridolfo Animo: figliuoli portatevi bene; siate lesti, e pronti a servir gli avventori, con civiltà, con proprietà: perché tante volte dipende il credito d’una bottega, dalla buona maniera di quei che servono.
Trappola Caro: signor padrone, per dirvi la verità: questo levarsi di buon’ora non è niente fatto per la mia complessione.
Ridolfo Eppure: bisogna levarsi presto. Bisogna servir tutti. A buon’ora vengono quelli che hanno da far viaggio, i lavoranti, i barcaruoli, i marinai, tutta gente che si alza di buon mattino.
Trappola: È veramente una cosa, che fa crepar di ridere, vedere anche i facchini venir a bevere il loro caffè.
Ridolfo: Tutti cercan di fare quello che fanno gli altri. Una volta correva l’acquavite, adesso è in voga il caffè.
Trappola: E quella signora, dove porto il caffè tutte le mattine, quasi sempre mi prega, che io le compri quattro soldi di legna, e pur vuol bevere il suo caffè.22

Nella loro ambizione moralistica, le riflessioni sul genere umano di questo “caffettiere” veneziano ci proiettano in un altro genere di caffè molto diffuso nel Settecento illuministico, ossia quello animato dai philosophes riformisti e moralisti seguaci dei Lumi che non mancarono neanche in Italia – a cominciare da uno dei centri propulsori delle idee e della cultura illuministica di importazione francese, ossia Milano.

Del fatto che in pieno Settecento i Caffè siano diventati anche luoghi loschi, ricettacolo di vizi e ritrovo di ladri, imbroglioni, adescatrici e lestofanti, troviamo conferma nei vari bandi e divieti con cui nei diversi paesi si tentò di arginare il fenomeno.23 In letteratura è ancora una volta il teatro goldoniano a offrire uno spaccato realistico degli avventori del Caffè, come nel caso di Momolo de L’uomo di mondo:

Momolo: E come! poderè andar anca vu in te le botteghe da caffè a parlar de le novità, a dir mal del prossimo, a taggiar dei teatri, a zogar alle carte, a far el generoso alle spalle de vostra sorella, e far la vita de Michielazzo: come fa i pari e i fradelli delle ballarine, delle virtuose e de tutte quelle povere grame, che se sfadiga in teatro per mantegnir i vizi de tanti e tanti, che no gh’ha voggia de sfadigar.23

Sullo sfondo di quest’immagine del Caffè veneziano settecentesco risiede una particolare versione della “Bottega” come luogo di vizi, storicamente ravvisabile nella coeva normativa volta a vietare la frequentazione dei Caffè alle donne nonché nelle rispettive richieste di «graziosa permissione» avanzate dai proprietari volte a «tenere donne nelle loro botteghe» ed essere inoltre esentati dal divieto di ricevere uomini in stanzette attigue alla bottega o, per dirla con il linguaggio burocratico dell’epoca, in «certi tali quali alloggi, o ricoveri, volgarmente et abusivamente detti casini introdotti […] ad oggetto di praticarvi in essi conversazioni o raddunanze [sic] di uomini misti con femine [sic]».25

2.2 Milano: un «caffè vero verissimo»

Anche la Milano settecentesca viene interessata dalla moda dei caffè. Tra i primi e più celebri figura senz’altro il “Caffè della Scala” che prendeva il nome dall’attiguo teatro lirico. Tale posizione garantiva a questa “bottega” una clientela di lusso che

alternava le critiche agli spettacoli al Teatro Ducale coi pettegolezzi mondani della corte e della società milanese, interrotte qualche volta da appassionate discussioni letterarie e filosofiche nelle quali gli eroi erano Rousseau, Voltaire, l’Enciclopedia, i Franchi Muratori, Parini, Verri, Beccaria.26

Non stupisce che il gruppo di illuministi milanesi riunitosi intorno ai fratelli Verri scelse di chiamare Il Caffè il foglio cui diede vita per diffondere le proprie idee nel Regno. Per dirla con Pietro Verri, uno dei suoi fondatori insieme al fratello Alessandro, si tratta di un «foglio di stampa che si pubblicherà ogni dieci giorni»27 su cui – «con ogni stile che non annoi»28 – saranno scritte «cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità».29 La ragione del titolo risale alla storia che gli illuministi milanesi inventano per ambientare i dibattiti e le riflessioni riportate dalla rivista: una fittiva «bottega addobbata con ricchezza ed eleganza somma»30 aperta a Milano dal fittivo caffettiere Demetrio, un «greco originario di Citera»31, in cui «si beve un caffè che merita il nome veramente di caffè; caffè vero verissimo di Levante e profumato col legno d’aloe, che chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo il più plombeo [sic] della terra, bisogna che per necessità si risvegli e almeno per una mezz’ora diventi uomo ragionevole».32

L’articolo di Pietro Verri fornisce, proseguendo, un suggestivo spaccato di vita di quello che è il classico ambiente del Caffè settecentesco tipico dei grandi centri europei che accolsero le idee provenienti d’oltralpe. Leggiamo:

In essa bottega chi vuol leggere trova sempre i fogli di novelle politiche, e quei di Colonia e quei di Sciaffusa e quei di Lugano e vari altri; in essa bottega chi vuol leggere trova per suo uso e il Giornale enciclopedico e l’Estratto della letteratura europea e simili buone raccolte di novelle interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano Romani, Fiorentini, Genovesi o Lombardi, ora sieno tutti presso a poco Europei; […]33

Come si vede, un ambiente del tutto diverso da quello della “bottega” goldoniana. E poco importa se il Caffè di Verri esiste solo sulla carta. Ciò che egli descrive qui è l’ambiente tipico, l’atmosfera che si respirava in ogni caffè letterario dell’epoca:

[…] in essa bottega per fine si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi son compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti che vi vedo accadere e tutt’i discorsi che vi ascolto degni da registrarsi; e siccome mi trovo d’averne già messi in ordine vari, così li do alle stampe col titolo Il Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di caffè.34

Nei due anni di vita del foglio (1764–1766) i “Caffettisti” dibatterono sulle sue pagine tematiche di svariata natura e rilevanza, ponderandone in primo luogo gli influssi sull’uomo e/o le implicazioni sociali. In linea con lo spirito eclettico e “pedagogico”-divulgativo dell’Illuminismo, gli interventi toccano questioni filosofiche, metereologiche, linguistiche, agricole, letterarie, giuridiche, economico-commerciali, storiche, politiche, sociali, antropologiche, di costume e di pubblica sanità.35 Nonostante la sua breve durata Il Caffè milanese riesce ad affermarsi quale principale foglio del riformismo illuministico, contribuendo a fare di Milano, insieme a Napoli, il secondo centro culturale dell’Italia settecentesca e illuministico-riformatrice.

Il fatto che il nome della rivista si rifacesse alla bevanda in voga è da leggere come attestato del grado di diffusione e consenso ormai raggiunto dalle “Botteghe” come importante luogo di sociabilità nonché di scambio e diffusione delle idee del riformismo illuministico provenienti d’Oltralpe. Il riferimento esplicito al caffè nel titolo del foglio è però anche indice della grande predilezione di cui questa bevanda, che tiene attiva e sveglia la mente (a differenza per es. del vino che l’offusca), godeva tra i cultori della Ragione. In questa sua qualità di bevanda-simbolo della classe borghese riformatrice in ascesa e dell’aristocrazia “illuminata”, il caffè viene a contrapporsi da una parte al vino – che resta la bevanda più diffusa (anche perché la meno cara) tra i ceti popolari nonché, nella versione del “Vin santo” (= sangue di Cristo), simbolo del ceto ecclesiastico – e dall’altra alla ben più raffinata e “lussuosa” cioccolata, amata dall’alta aristocrazia e dai regnanti. La metaforicità del caffè quale bevanda-simbolo di chi “ragiona” contrapposta ai fumi dell’alcol che, invece, annebbia la mente è di indubbia origine francese. Sarà, infatti, lo storico d’Oltralpe Jules Michelet che nella sua Histoire de France darà ragione dell’«avènement du café»36 in termini a dir poco trionfalistici:

Le café, la sobre liqueur, puissamment cérébrale, qui, tout au contraire des spiritueux, augmente la netteté et la lucidité, – le café qui supprime la vague et lourde poésie des funée d’imagination, qui, du réel bien vu, fait jaillir l’étincelle, et l’éclair de la vérité.37

Aggiungendo con orgoglio:

Ce fort café, celui de Saint-Domingue, plein, corsé, nourrissant, aussi bien qu’excitant, a nourri l’âge adulte du siècle, l’âge fort de l’Encyclopédie. Il fut bu par Buffon, par Diderot, Rousseau, ajouta sa chaleur aux âmes chaleureuses, sa lumière à la vue perçante des prophètes assemblés dans ‘l’antre de Procope’, qui virent au fond du noir breuvage le futur rayon de 89.38

Tuttavia, l’attestazione letteraria del Caffè come luogo princeps dell’Illuminismo è di origine goldoniana e trova in Ridolfo, protagonista e proprietario della “Bottega del caffè”, un degno rappresentante di quello spirito filantropico e “moralistico” che propugna la perfettibilità illuministica – «fare del bene al prossimo».39

2.3 Il caffè a Napoli tra cinema e teatro

Nel cinema e nel teatro napoletano la rappresentazione della preparazione e della consumazione del caffè è strettamente legata a quella della ritualità e dei costumi della cultura popolare. Sul versante cinematografico, il caffè fa capolino in diversi film “di cassetta”, sempre presentato come elemento integrante della dimensione “casalinga” e famigliare o, se preso al bar, come momento princeps di quotidianità nei rapporti di amicizia o di affari. È per esempio consumando un caffè al bar che ne La banda degli onesti40 il portiere Antonio Buonocore, alias Totò, cerca di convincere il tipografo Lo Turco, alias Peppino De Filippo, a passare dalla parte dei “ragionier Casoria” stampando banconote false.

Ed è una tipica caffettiera napoletana (tristemente e sintomaticamente vuota) quella che, nella scena in cui il tipografo e il portiere realizzano di essere consuoceri, fa bella mostra di sé sul tavolo di cucina di casa Lo Turco, quasi a mo’ di ideale trait d’union parentale.

Tanto sullo schermo quanto sulla scena il caffè diventa spesso oggetto di spassoso litigio tra marito e moglie dovuto o alla di lei imperizia nel prepararlo o all’avarizia nel servirlo. Celeberrima, a tal proposito, è la scena di Totò, Peppino e i fuorilegge41 in cui l’avara Teresa, alias Titina De Filippo, serve «mezza tazza» di caffè, per giunta anche freddo, al marito.

Dal canto suo il motivo della «ciofeca» è ricorrente sia al cinema sia a teatro, in quanto fonte di sicuro effetto comico. Si pensi, per esempio, alla scena della «ciofeca dello sport» ne I due marescialli:42

Per quanto riguarda il teatro, invece, memorabile è la scena iniziale di Natale in casa Cupiello (1931) di Eduardo De Filippo, in cui la tazzina di caffè, servita a letto al protagonista, diventa oggetto di litigio mattutino tra questi e la moglie Concetta, rea di usare, per risparmiare, caffè vecchio e stantio, rovinandogli il risveglio:

Nonostante si tratti di un genere affatto voluttuario, nella cultura partenopea il caffè è da sempre parte integrante e irrinunciabile della ritualità quotidiana. Lo sa bene Amalia Jovine che in Napoli milionaria (1945) sfrutta l’impossibilità da parte dei napoletani a rinunciarvi per arricchirsi col contrabbando e la borsa nera. Com’è noto, il sipario si apre proprio sui preparativi fatti da Maria Rosaria, figlia di Amalia Jovine, per allestire il quotidiano spaccio illegale di caffè, mentre la madre sta litigando con una vicina per difendere il proprio monopolio nel vicolo:

Nonostante la guerra in corso – anzi: proprio a causa di essa – il rito quotidiano della «tazzulella ’e cafè» si carica di una simbologia affatto nuova legata ad un intimo desiderio di ritorno alla pace e alla normalità prebellica. D’altro canto, i materassi di casa Jovine imbottiti di caffè di contrabbando diventano evidente monito rispetto all’arricchimento illegale attraverso il mercato nero ed alla conseguente degenerazione dei rapporti interpersonali, famigliari e di classe nella società postbellica.43

Sarà, però, con Questi fantasmi (1946) che il teatro eduardiano fornirà la più celebre scena di ritualità partenopea legata alla preparazione ed al consumo di caffè. Si tratta della celebre scena del balcone, che apre il secondo Atto della commedia, nella quale il protagonista Pasquale Lojacono, conversando amabilmente con l’invisibile dirimpettaio, fornisce la sua ricetta personale ed i suoi suggerimenti sulla tostatura e le modalità di preparazione, non mancando di rivelare il suo piccolo segreto: il «coppetiello»:

La napoletanità del protagonista si rivela nella sua indisponibilità a rinunciare a quella «tazzina di caffè, presa tranquillamente qua, fuori al balcone, dopo quell’oretta di sonno che uno si è fatta dopo mangiato».44 Nello sfogo che Eduardo mette in bocca al suo protagonista cogliamo una nota di amarezza dovuta alla mancata partecipazione a questo rito da parte della più giovane moglie, segno evidente che

la nuova generazione ha perduto queste abitudini che, secondo me, sotto un certo punto di vista, sono la poesia della vita; perché, oltre a farvi occupare il tempo, vi danno pure una certa serenità di spirito.45

La paventata scomparsa, nelle giovani generazioni, del rito pomeridiano della tazzina di caffè consumata sul balcone diventa simbolo dell’attaccamento dell’Autore ai costumi e alle tradizioni della sua città, che egli vede sempre più messe in pericolo dalla “modernità”. In questa nota nostalgica di Eduardo riecheggia l’atmosfera alquanto idillica e idealizzata di una “Napoli che fu” già simboleggiata dal presepe di Luca Cupiello: la grande Napoli fineottocentesca, di cui il drammaturgo era culturalmente figlio, destinata a dissolversi nella «nuttata» della seconda guerra mondiale.

Ma Eduardo non ha del tutto ragione: nonostante le “nuttate” di allora e di oggi, quella Napoli sopravvivrà fintanto che nei bar della Sanità o di Spaccanapoli sarà servito anche un solo caffè “sospeso”.

Appendice

Pietro Verri: Storia naturale del caffè (1764)46

Il caffè, signori miei, non è altrimenti una fava o un legume, non nasce altrimenti nelle contrade vicine a Costantinopoli; e se siete disposti a credere a me, che ho viaggiato il Levante ed ho veduto nell’Arabia i campi interi coperti di caffè, vi dirò quello che egli è veramente. Il caffè, che noi orientali comunemente chiamiamo cauhè e cahua, è prodotto non da un legume, ma bensì da un albero, il quale al suo aspetto paragonasi agli aranci ed a’ limoni quand’hanno le loro radici fisse nel suolo, poiché s’alza circa quattro o cinque braccia da terra; il tronco di esso comunemente s’abbraccia con ambe le mani, le foglie sono disposte come quelle degli aranci, come esse sempre verdi anche nell'inverno e come esse d'un verde bruno; di più l’albero del caffè nella disposizione de’ suoi rami s’estende presso poco come gli aranci, se non che nella sua vecchiezza i rami inferiori cadono alquanto verso il pavimento. Il caffè cresce e si riproduce con poca fatica anche nelle terre le quali sembrerebbero sterili per altre piante; e in due maniere si moltiplica, e col seme (il quale è quell’istesso che ci serve per la bevanda) e col produrne di nuove pianticelle delle radici. È bensì vero che il seme del caffè diventa sterile poco dopo che è distaccato dall’albero, ed alla natura deve imputarsi, non alle pretese cautele degli Arabi se ei non produce portato che sia da noi, poiché non è altrimenti vero che gli Arabi lo disecchino ne’ forni, né nell’acqua bollente a tal fine, come alcuni spacciarono. L’albero del caffè finalmente s’assomiglia agli aranci anche in ciò, che nel tempo medesimo vi si vedono e fiori e frutti, altri maturi, altri no, sebbene il tempo veramente della grande raccolta nell’Arabia sia nel mese di maggio. I fiori somigliano i gelsomini di Spagna, i frutti sembrano quei del ciriegio, verdastri al bel principio, poi rossigni, indi nella maturanza d’un perfetto porporino. Il nocciolo di esso frutto rinchiude due grani di caffè, i quali si combaciano nella parte piana e son nodriti da un filamento che passa loro al lungo, di che ne vediamo vestigio nel grano medesimo: si raccolgono i frutti maturi del caffè scuotendone la pianta, essi non sono grati a cibarsene, si lasciano diseccare esposti al sole, indi facendo passare sopra di essi un rotolo di sasso pesante si schiudono i gusci e ne esce il grano. Ogni pianta presso poco produce cinque libbre di caffè all’anno, e costa sì poca cura il coltivarla ch’egli è un prodotto che ci concede la terra con una generosità che poco usa negli altri.

Fig. 12: Pianta di caffè

Pianta di caffè

Nell’Oriente era in uso la bevanda del caffè sino al tempo della presa di Costantinopoli fatta da’ maomettani, cioè circa la metà del secolo decimo quinto; ma nell’Europa non è più d’un secolo da che vi è nota. La più antica memoria che sen’abbia è del 1644, anno in cui ne fu portato a Marsiglia, dove si stabilì la prima bottega di caffè aperta in Europa l’anno 1671. La perfezione della bevanda del caffè dipende primieramente dalla perfezione del caffè medesimo, il quale vuol essere arabo, e nell’Arabia stessa non ogni campo lo produce d’egual bontà, come non ogni spiaggia d’una provincia produce vini di forza eguale. Il migliore d’ogni altro è quello ch’io uso, cioè quello che si vende al Bazar, ossia al mercato di Betelfaguy, città distante cento miglia circa da Mocha. Ivi gli arabi delle campagne vicine portano il caffè entro alcuni sacchi di paglia e ne caricano i cameli [sic]; ivi per mezzo dei banian i forestieri lo comprano. Comprasi pure il buon caffè al Cairo ed in Alessandria, dove vi è condotto dalle caravane della Mecca. I grani del caffè piccoli e di colore alquanto verdastro sono preferibili a tutti. Dipende in secondo luogo la perfezione della bevanda dal modo di prepararla, ed io soglio abbrucciarlo appena quanto basti a macinarlo, indi reso ch’egli è in polve, entro una caffettiera asciutta lo espongo di nuovo all’azione del fuoco, e poiché lo vedo fumare copiosamente gli verso sopra l’acqua bollente, cosicché la parte sulfurea e oleosa, appena per l’opera del fuoco si schiude dalla droga, resti assorbita tutta dall’acqua; ciò fatto lascio riposare il caffè per un minuto, tanto che le parti terrestri della droga calino al fondo del vaso, indi profumata altra caffettiera col fumo del legno d’aloe, verso in essa il caffè che venite a prendere e che trovate sì squisito.

Fig. 13: Chicchi di caffè

Chicchi di caffè

Il caffè rallegra l’animo, risveglia la mente, in alcuni è diuretico, in molti allontana il sonno, ed è particolarmente utile alle persone che fanno poco moto e che coltivano le scienze. Alcuni giunsero perfino a paragonarlo al famoso nepente tanto celebrato da Omero; e si raccontano de’ casi ne’ quali coll’uso del caffè si son guarite delle febbri e si son liberati persino alcuni avvelenati da un veleno coagulante il sangue; ed è sicura cosa che questa bibita infonde nel sangue un sal volatile che ne accelera il moto, e lo dirada e lo assottiglia e in certa guisa lo ravviva. Questa pianta animatrice, naturale per quanto sembra al suolo dell’Arabia, fu verso il fine dello scorso secolo dagli Olandesi trasportata nell’isola di Java a Batavia, indi moltiplicatasi, ivi se ne dilatò dai medesimi la piantagione anche nell’isola di Ceylon, poscia col tempo se ne portò in Europa; e in Olanda e in Parigi per curiosità se ne coltivano le piante, le quali nelle serre riscaldate l’inverno reggono e producono frutti, e tanto sen’è universalizzata la cultura presentemente che nell’America e nell’Indie Orientali se ne fa la raccolta, cosicché abbiamo caffè di Surinam, dell’isola Bourbon, di Cayenne, della Martinica, di S. Domingo, della Guadalupa, delle Antille, dell’isole di Capo-Verde. Il caffè d’Arabia è il primo, quello dell’Indie Orientali vien dopo, il peggiore d’ogni altro è quello d’America.

Così terminò di parlare Demetrio; ed io credetti al suo discorso, poiché lo trovai conforme a quanto ne aveva letto nelle Memorie dell’Accademia Reale delle Scienze di Parigi dell’anno 1713 in un Memoire del signor Jussieu, a quanto ce ne attestano i Viaggi dell’Arabia felice del signor La Roque, del cavalier di Marchais, le Memorie del signor Garcin. Ma poiché ebbe terminato il suo ragionamento Demetrio, s’alzò il curiale e uscì dalla bottega ripetendo: Gran fatto, che quel legume del caffè, quella fava, ci debba venire sino da Costantinopoli!

P. [PIETRO VERRI]

Note

1 Leonhard Rauwolf: Reiß in die Morgenländer, 98. Cit. da: Thomas Hengartner/Christoph Maria Merki (1999: 86).

2 Angelo Rambaldi (2001).

3 Angelo Rambaldi, Ambrosia arabica, cit. da: Paolo Puddu (2002: 217).

4 Pietro Verri: Storia naturale del caffè, in «Il Caffè» 1764–1766, a c. di G. Franciosi e S. Romagnoli, Torino 1998, vol. I, 11–17; qui: 16.

5 Maurizio Galli: Il caffè turco, in: La Lettura, nr. 3, marzo 1907, 241–245; qui: 242–243 (Corsivo nel testo).

6 Anonimo (G. B. C.), Cenni storici su il Caffè (1), in: Annali Universali di Statistica, Economia pubblica, Storia e Viaggi, ser. 1, vol. 5, agosto 1825, 57–64; qui: 59. Indice della estrema popolarità della bevanda nera nella società turca sono le pubbliche torrefazioni frequentate da ogni ceto sociale: «A Costantinopoli, come in tutte le grandi città dell’impero vi è un apposito grandioso magazzino, nel quale altro non si fa che abbrucciare [sic] e macinare caffè […]. Un gran numero di persone e famiglie ve l’apportano in grani e mediante alcuni parà o soldi, loro viene restituito torrefatto, macinato e stacciato. I direttori di questi stabilimenti, chiamati Tahhmiss, non si permettono mai la menoma soperchieria, sia nel paso [sic], sia nel caffè che loro si porta, giacché questo è inerente all’interesse loro». Anonimo (G. B. C.), Cenni storici su il Caffè (1), op. cit., 60 (Corsivo nel testo).

7 Fritz Riha (1967: 17).

8 Ivi, 18.

9 Francesco Redi, Bacco in Toscana, vv. 188–203. (Cfr. http://it.wikisource.org/wiki/Bacco_in_Toscana (sito visitato il 14 ottobre 2011).

10 Cfr. http://www.almut-fingerle.de/projekte_kaffeekante.htm (sito visitato il 12 ottobre 2011).

11 Pompeo Molmenti, I caffè di Venezia, in: La Lettura, nr. 2, febbraio 1904, 121–128; qui: 121.

12 Ibidem.

13 Giuseppe Adami, Il Caffè Pedrocchi nella sua vita e nella sua storia, in: La Lettura, nr. 9, settembre 1905, 787–795; qui: 787.

14 Ibidem.

15 Renzo Levi Naim, Illustri clienti di un antico caffè romano, in: La Lettura, nr. 3, marzo 1923, 235–237; qui: 235.

16 Klaus Thiele-Dohrmann (1997: 204).

17 Cfr. Vincenzo Cuoco, Saggio sulla rivoluzione napoletana del 1799, Cap. 50.

18 Jules Michelet, Histoire de France, Parigi 1876, vol. XIV: XVIIIe siècle: La Régence, 162.

19 Carlo Goldoni, La sposa persiana, 574.

20 Carlo Goldoni, Le femmine puntigliose, 1180.

21 Carlo Goldoni, La vedova scaltra, 385.

22 Carlo Goldoni, La bottega del caffè, 7.

23 Cfr. per esempio la tentata e non riuscita chiusura dei caffè («ritrovi preferiti per oziosi e scontenti») stabilita da Carlo II d’Inghilterra con regio decreto del 29 dicembre 1675, poi ritirato, sotto massicce proteste della popolazione, a pochi giorni dall’entrata in vigore.

24 Cfr. L’uomo di mondo, Atto II, sc. 8.

25 Divieto emesso dal Consiglio dei Dieci nel 1743, cit. da: Filippo Maria Paladini, Sociabilità ed economia del loisir. Fonti sui caffè veneziani del XVIII secolo, in: Storia di Venezia – Rivista, I, 2003, 153–281; qui: 155–156.

26 G. [sic] Morazzoni, Il caffè del Teatro alla Scala, in: La Lettura, nr. 4, aprile 1932, 191–194; qui: 192.

27 P. [Pietro Verri], “Il Caffè” [Introduzione], in: Il Caffè 1764–1766, op. cit., vol. I, 11–14; qui: 11.

28 Ibidem.

29 Ibidem.

30 Ivi, 12.

31 Ivi, 11.

32 Ivi, 12.

33 Ibidem.

34 Ibidem.

35 Per avere solo un’idea della varietà dei temi affrontati dai Caffettisti si vedano, a solo mo’ di esempio, i seguenti articoli tratti da «Il Caffè» 1764–1766, op. cit.: Alessandro Verri, “Di Carneade e di Grozio”, vol. II, 705–721. Id., “Alcune idee sulla filosofia morale”, ibidem, 685–695. Giuseppe Visconti, “Osservazioni metereologiche fatte in Milano. Sul termometro. Su i [sic] venti”, vol. I, 78–82; 96–104; 106–113. Alessandro Verri, “Rinunzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico al Vocabolario della Crusca”, vol. I, 47–50. Pietro Secchi, “La coltivazione del tabacco”, vol. I, 56–58. Pietro Verri, “La coltivazione del lino”, in: ibidem, 176–177. Pietro Verri, “Sullo spirito della letteratura d’Italia”, vol. I, 211–222. Cesare Beccaria, “Frammento sullo stile”, in: ibidem, 277–284. Alessandro Verri, “Ragionamento sulle leggi civili”, vol. II, 571–606. Pietro Verri, “Sulla spensieratezza della privata economia”, vol. I, 322–330. Cesare Beccaria, “Tentativo analitico su i [sic] contrabbandi, ibidem, 173–175. Alessandro Verri, “Di Giustiniano e delle sue leggi”, vol. I, 177–189. Gian Rinaldo, “Della patria degli Italiani”, vol. II, 421–427. Sebastiano Franci, “Difesa delle donne”, vol. I, 245–256. Luigi Lambertenghi, “Sull’origine e sul luogo delle sepolture”, vol. II, 481–487. Pietro Verri, “Le delizie della villa”, vol. I, 166–173. Giuseppe Visconti, “Della maniera di conservare robusta e lungamente la sanità di chi vive nel clima milanese”, in: «Il Caffè» 1764–1766, op. cit., vol. II, 498–532. Pietro Verri, “Sull’innesto del vaiuolo”, in: ibidem, 756–803.

36 Jules Michelet, op. cit., 162.

37 Ivi, 162–163.

38 Ivi, 164.

39 Cfr. Carlo Goldoni (2002), 227–228. [Atto II, Scena 8]. Come ha giustamente riconosciuto Cornelia Klettke, «Goldonis caffettiere Ridolfo verkörpert den Vernunftstandpunkt und die bürgerliche Moral in den Werten prudente-cauto-onorato. Als Versöhner der verschiedenen Parteien erscheint er als eine ausgleichende, positive Figur. Die bottega del caffè wird zur Begegnung von Vernunft und Unvernunft, zum Ort, an dem das menschliche Laster (Spielleidenschaft, Geldgier und Falschspielerei, Hochstapelei, üble Nachrede) korrigiert wird und die Vernunft im Kampf gegen die Infamie triumphiert. Damit bildet das Kaffeehaus […] einen ‚Aufklärungsort‘ par excellence». Cornelia Klettke (2003), 133–134.

40 1956, regia di Camillo Mastrocinque.

41 1956, regia di Camillo Mastrocinque.

42 1962, regia di Sergio Corbucci.

43 Su ciò cfr. Roberto Ubbidiente (2009).

44 Eduardo De Filippo: Questi fantasmi, in: Teatro, Milano 2005, vol. 2, t. 1: Cantata dei Giorni dispari, 378.

45 Ivi, 378–379.

46 Estratto da: P. [Pietro Verri], Il Caffè [Introduzione], op. cit., 14–17.

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Sitografia su materiali audiovisivi

Canzoni:

Roberto Murolo: ’A tazz ‚’e cafè: http://www.youtube.com/watch?v=zRV7RAg5iyA

Fabrizio De Andrè: Don Raffaè: http://www.youtube.com/watch?v=yp_CvmOvLoQ

Fiorella Mannoia: Caffè nero bollente: http://www.youtube.com/watch?v=VAj21CIrHQ4

Pino Daniele: Na tazzulell ’e cafè: http://www.youtube.com/watch?v=Dqo730l_eCs

Teatro:

Carlo Goldoni: La bottega del caffè (scena): http://www.youtube.com/watch?v=Qbst9hi4Jao

Eduardo De Filippo: Questi fantasmi, Atto II, sc. 1: http://www.youtube.com/watch?v=YllQLj0h6mo

Eduardo De Filippo: Considerazioni sul caffè http://www.youtube.com/watch?v=-rcI7sQwRe8

Televisione:

Nanni Loy: La zuppetta (da: Specchio segreto): http://www.youtube.com/watch?v=pbjtWRquNXA

Pubblicità:

Carmensita paulista: http://www.youtube.com/watch?v=_elqPaI-XHQ

“Caballero” paulista: http://www.youtube.com/watch?v=wgbUR_WkY00&feature=watch_response

Bialetti 1: http://www.youtube.com/watch?v=uNbXtCqDIQE

Bialetti 2: http://www.youtube.com/watch?v=D5A-4ZOX468

Dalla rete:

How to make an italian coffee: http://www.youtube.com/watch?v=huC3E1c4SBs

Cappuccino art: http://www.youtube.com/watch?v=UX8LXPm-Qb0

International Coffee Organization http://www.ico.org/